Avevamo vent’anni, quando un giorno, io e il mio fidanzato, quasi come un’illuminazione, ci rendemmo conto che era arrivato il momento di realizzare un sogno che avevamo cullato fin dal nostro primo incontro. Ne parlammo in paese, e Don Pietro Meledina ci mise subito a disposizione l’oratorio, quello di fronte alla chiesa. Era una sala lunga e stretta, senza riscaldamento, e c’erano solo poche sedie. Per noi però poche sedie erano tante, e quell’oratorio spoglio e freddo era perfetto per diventare il nostro nuovo punto d’incontro.
Cercammo adesioni prima di tutto in famiglia, e poi tra i vicini di casa, che a loro volta invitarono amici e parenti. L’idea era piaciuta a tutti. D’altra parte non è che avessimo tanto da fare. I ragazzi frequentavano il bar e le ragazze s’incontravano nella sede dell’Azione Cattolica. Poi c’erano le feste in famiglia, ma nient’altro. Incontrarsi per cantare avrebbe aggiunto un po’ di novità alla vita di tutti, e persino i nostri genitori non avrebbero avuto nulla da ridire: un coro era un buono e sano motivo per darci il permesso di rientrare alle nove di sera.
In pochissimi giorni arrivarono più di venti ragazzi, felici di condividere il nostro progetto. Ci conoscevamo tutti, ma c’eravamo un po’ persi di vista, perché ormai eravamo alle scuole superiori. Ora potevamo rispolverare tante amicizie nate all’asilo, alla scuola elementare, alle scuole medie, ma soprattutto per strada, dove avevamo giocato ogni giorno insieme.
Chi non ricordava la madre superiora Suor Nazaria, severissima anche quando ci insegnava a recitare. Forse era proprio grazie alla sua severità che all’asilo gli spettacoli riscuotevano sempre un grande successo, e se ne parlava a lungo nelle botteghe, in panificio, e anche la sera “in sa friscura”. Dopo cena ci davamo appuntamento in strada, davanti a casa: i più grandi si portavano appresso gli scanni e si sedevano a raccontare. Come era bello ascoltarli! Loro avevano visto gli spettacoli, e noi che non avevamo potuto comprare un biglietto d’ingresso, restavamo affascinati e fantasticavamo sulle scene e i costumi, anche nei giorni seguenti, quando i loro racconti arricchivano i nostri giochi. Alle undici della sera, d’estate, si cominciavano a sentire i richiami per andare a dormire: “Annaaa! Antonellooo! Giorgiooo! Alidaaa!”. Ma nessuno rispondeva finché i racconti non erano finiti.
Negli stessi anni Suor Glicina e Suor Anselmina ci avevano dato le prime lezioni di canto. Forse era anche grazie a loro che amavamo la musica. Al tempo, le maestre conoscevano un vastissimo repertorio di canti: dai cori alpini e patriottici, ai canti napoletani e popolari, ai cori da opere. Mancavano solo i canti sardi. Chi cantava in sardo erano i lavoratori in paese, non le ragazze canterine che avevano ormai subìto il fascino della canzone italiana, grazie all’ingresso prepotente della radio nelle case. Solo i più anziani si ostinavano ancora ad ascoltare i canti sardi trasmessi da Radio Sardegna, e così succedeva che ogni domenica, verso le due del pomeriggio, da casa di Martinella, “sa canzoni a curba”, “su muttettu” o “su cantu a tenores” echeggiavano in tutto il paese, che ti piacesse o meno. Qualche volta i vicini se ne lamentavano, ma forse alla fine Martinella manteneva viva la tradizione del canto sardo, al posto delle maestre, e noi stessi, forse anche grazie a lei, avevamo imparato ad apprezzare tutta la musica, indistintamente.
Eravamo cresciuti cantando. Si cantava a casa, in chiesa, a scuola, per strada, al lavoro e nei giochi. Anche la morte aveva il suo canto. Tante volte avevamo sentito “s’attitidu”. Gli adulti non ci permettevano di stare nella stanza del morto, ma noi ci spingevamo fin sotto le finestre della casa in lutto, e ascoltavamo curiosi le lodi che si cantavano al defunto.
Poi c’era stato “Un fil di fumo”: un vero successo scolastico. Tutte le famiglie avevano imparato a cantarlo dai loro figli e ancora oggi molti se lo ricordano. Sulla scena gli alunni cantavano e danzavano vestiti da cinesini. Avevano delle casacche in raso dai mille colori e un capellino col codino nero. Era stato davvero divertente preparare i costumi: in paese c’erano tante brave sarte e facevano a gara per creare l’abito migliore. A scuola avevamo preparato i glicini di carta che sarebbero usciti da dentro le maniche delle casacche al passaggio della “Bella Mus Me”. E la “Bella Mus Me” che avanzava con lo splendido kimono fiorito, le guance rosa come le delicate porcellane cinesi, e la crocchia appuntata con dei lunghi spilloni neri, era rimasta nel cuore di tutti, insieme al dolcissimo motivo che cantava. Che voce soave! Che melodia carica di vibrante dolcezza! Meravigliosi ricordi che nel tempo si erano trasformati nel desiderio di incontrarci, o ri-incontrarci, per cantare.
Incominciammo con un canone, una forma musicale semplice, ma d’effetto, che piacque a tutti. Scegliemmo poi dei canti della polifonia del ‘500 a tre e a quattro voci. Ci chiamavano la Maestra e il Maestro, anche se al Conservatorio eravamo ancora solo degli studenti. Io insegnavo a leggere la musica e il mio fidanzato insegnava i canti.
Ci incontrammo per diversi mesi con l’impegno di prepararci per una prima esibizione. Intanto nascevano nuove amicizie, nuovi amori, ma anche nuovi impegni. Terminati gli studi, ci trasferimmo a Venezia e il gruppo si disperse. Il primo concerto non ci fu mai.
Erano passati più di trent’anni, quando un giorno, quasi come un’illuminazione, ci rendemmo conto che era tornato il momento di realizzare il sogno che avevamo cullato fin dal nostro primo incontro. Eravamo tornati da Venezia, e in paese, il presidente della Pro Loco, ci mise a disposizione una bellissima sala presso la vecchia scuola elementare di Via Dell’Arma Azzurra. “La nostra scuola!” esclamammo. Quanti ricordi! Quanta allegria dimenticata! I tanti bei spettacoli organizzati dalle maestre, le meravigliose mostre nei grandi anditi con i disegni di tutti i bambini, i concorsi per scegliere la poesia più significativa o il tema più originale da pubblicare nel giornalino della scuola. E chi non aveva avuto paura delle ore di religione con Don Piras? Anche quando le sue tiratine d’orecchi diventavano un po’ troppo dolorose, al rientro a casa nessun bambino ne faceva parola con i genitori. Poi c’erano la paura dei compagni più grandi, che a volte ti rincorrevano per picchiarti, e i pianti per i nomignoli che ti appioppavano. E quanta angoscia per i ritardi! Signora Annunziata Marini avrebbe chiuso il cancello col lucchetto, e riaprirlo non sarebbe stato possibile neanche se fosse arrivato tuo padre in divisa. Anzi tuo padre e tua madre erano d’accordissimo con Signora Annunziata, con Don Piras e con tutte le maestre. Amabili o esageratamente severe, le Maestre erano comunque perfette, perché erano le Maestre, e sapevano come educare.
Strapiena dei più bei ricordi della nostra infanzia, la scuola dove ancora risuonavano i primi canti che avevamo imparato, era perfetta per diventare il nostro nuovo punto d’incontro, e nel giro di qualche giorno arrivarono più di venti ragazzi: eravamo di nuovo il Maestro e la Maestra.
I primi incontri furono ricchi di emozioni: passavamo più tempo a raccontare che a cantare. Ci sembrava di essere in un sogno. Alcuni si erano sposati e avevano dei figli, altri avevano lasciato il paese per tanto tempo, ma tutti avevano ancora lo stesso entusiasmo e la stessa passione per il canto.
Ricevemmo tantissimi regali: una bellissima lavagna dove Franco incise il pentagramma; una comoda scrivania e un armadio capiente donati da un generoso sostenitore; una tastiera procurata da Luisa, che era impaziente di iniziare. Dopo poche prove, ripensando a quel lontano concerto mai realizzato, fissammo la data della prima esibizione: “a Natale faremo il nostro primo concerto”, annunciò il Maestro, “abbiamo un debito con tutto il paese e soprattutto con Don Pietro che, nel lontano 1970, ci aveva messo a disposizione il vecchio salone”. A molti quella data sembrò un po’ troppo vicina, ma l’entusiasmo ci aiutò a superare la paura.
Arrivò Natale. Il coro era pronto per il concerto. Le ragazze avevano curato tutti i particolari: abiti, acconciature e trucco. “L’abito nero è più elegante”, si diceva. La sarta, che ormai faceva parte del coro, aveva suggerito una bella sciarpa rossa in seta, e così aveva aggiunto un tocco di raffinato stile agli abiti neri. “Abito nero anche per i ragazzi”, aveva suggerito il Maestro, che di concerti ormai se ne intendeva, “con papillon nero, possibilmente”. Ed è allora che Gemiliana aveva messo in mostra tutto il suo talento: aveva preparato i papillon per tutti, Maestro compreso, ed erano così perfetti e ben rifiniti che neanche un sarto di fama li avrebbe cuciti meglio.
Il Concerto di Natale fu un grande successo. L’emozione più grande era stata quella di avere i nostri figli e nipoti in platea ad ascoltarci. I nostri genitori invece non c’erano più. Loro che tanto tempo prima avevano condiviso il nostro progetto, ora se n’erano andati, anche se nel fragore degli applausi, ci era sembrato di vederli sorridere tra il pubblico.
Con il nostro primo concerto avevamo vinto la paura e ci sentivamo orgogliosi di ciò che avevamo realizzato. Era la prima volta che cantavamo a quattro voci. Forse ci era sfuggita qualche pausa, forse nella grande tensione del momento qualche semibreve era diventata più corta e qualche croma troppo veloce, ma era bastato il primo accordo dell’Ave Maria perché anche l’ascoltatore più distratto venisse contagiato dall’emozione, e questa era l’unica cosa che contava.
Giorno dopo giorno, concerto dopo concerto, diventammo sempre più affiatati e iniziammo a sentirci parte di un coro vero e proprio. Fu così che decidemmo di organizzare una nuova avventura: “a ottobre del prossimo anno faremo un gemellaggio con una corale francese”, annunciammo. Alcuni pensarono ad uno scherzo, una battuta come tante: d’altronde il Maestro amava scherzare. Ma il gemellaggio con la Francia era un progetto serio, e ben presto l’euforia e l’entusiasmo contagiarono tutti, in tutto il paese, proprio come ai vecchi tempi.
Arrivò ottobre e partimmo per il gemellaggio. Molti di noi non erano mai stati in Francia: Annecy, Lione, Chamonix, il Monte Bianco. La corale francese ci riservò un’accoglienza indimenticabile, e altrettanto indimenticabili furono le chiese dove realizzammo i nostri concerti. Poi la corale di Annecy ricambiò la visita. Fu una speciale settimana di festa che coinvolse tutto il paese, sindaco e assessori compresi, e l’esperienza ci lasciò così entusiasti che non vedevamo l’ora di ripeterla.
Il secondo gemellaggio non tardò ad arrivare. “Questa volta andremo nel Veneto”, annunciammo, “ma dobbiamo darci da fare per creare un repertorio sempre più vario”.
Il viaggio nel Veneto fu ricco di sorprese. Il Maestro non aveva potuto tralasciare la visita al Teatro La Fenice, a Venezia. Era stato il suo teatro per diversi anni, ne conosceva tutti i particolari, lo aveva amato come si può amare la propria casa, ma dopo l’incendio non l’aveva più rivisto. All’Arena di Verona, invece, mentre gli attrezzisti lavoravano all’allestimento della prima opera, avevamo intonato “Non poto reposare”, e tutti i turisti presenti erano restati immobili, in perfetto silenzio, fino alla fine del canto. Era stato emozionante ricevere gli applausi da una platea così speciale: in Veneto avevamo fatto diversi concerti, ma il concerto improvvisato all’Arena era quello che tutti raccontavamo con più entusiasmo, quasi fosse stato l’unico.
Ai momenti di festa si alternarono momenti di grande tristezza. Franco, che tanto aveva sognato il viaggio nel Veneto, un mese prima della partenza se n’era andato. Nel canto aveva trovato una nuova dimensione e sperava così di sconfiggere il suo male, ma non ce l’aveva fatta. Poco tempo dopo ci aveva lasciato anche Mondo, uno dei nostri bassi, e gli dedicammo una poesia che iniziava così: “Cun passu eleganti e armoniosu che oppinu solitariu in bidda nosta, fra is primus a cantai fiast arribbau e fra is primus, silenziosu, s’a lassau”.
Non fu facile accettare l’assenza dei nostri amici, ma continuammo a cantare, a viaggiare e a sognare. E continuiamo anche oggi: siamo sempre di più e sempre più uniti. Uniti dalle nostre origini, dai ricordi d’infanzia, dai successi e dai momenti difficili, ma soprattutto dalla musica che ci ha fatto diventare una grande famiglia.
Anna C.
Nota.
“Un sogno nel cassetto” è la storia della Schola Cantorum Villa del Mas, la corale di Elmas. Oggi la corale è formata da più di cinquanta cantori, provenienti da Elmas e altri paesi vicini. Il racconto è stato premiato al concorso "Raccontando Elmas" organizzato dall'associazione culturale Equilibri di Elmas.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento